Le dichiarazioni del Ministro Poletti, al “Job&orienta” che si è tenuto ieri a Verona ci lasciano perplessi sotto diversi punti di vista. Quello che colpisce è da un lato la rigidità con cui il Ministro percepisce il percorso formativo, dall’altro l’ottusità che dimostra nel concepire il rapporto che esso ha con l’inserimento nel mondo del lavoro.
L’idea che la laurea sia semplicemente un titolo, da conseguire nel più breve tempo possibile per immettersi di fretta nel mondo del lavoro, è una stupidaggine a tutti gli effetti ed è fallace sotto diversi aspetti. Se il compito della formazione terziaria è quello di costruire la tanto sbandierata ‘società della conoscenza’, essa deve raggiungere quante più persone possibile: da qui deriva la necessaria flessibilità del percorso formativo che deve poter essere diluito, modificato, arricchito secondo le esigenze dello studente. Non ci possiamo dire che chi sceglie di allungare il suo percorso formativo per fare un’esperienza all’estero o per partecipare attivamente alla vita culturale e associativa di una città sta buttando del tempo. Come non possiamo puntare il dito, in nome di un rigido produttivismo economicista, contro un lavoratore che decida di riprendere gli studi abbandonati tempo prima.
Un altro aspetto è legato all’immissione nel mondo del lavoro. Un imprenditore dovrebbe sentirsi offeso dalle parole del Ministro, infatti è un comportamento molto ottuso e da disincentivare quello di scegliere un futuro lavoratore sulla base degli anni che ha impiegato per laurearsi. Se un’ impresa vuole produrre innovazione ha necessità di un lavoratore che possieda determinate conoscenze, che derivano anche dall’approfondimento del suo percorso formativo. Applicare la logica del primo che arriva è una scelta piuttosto miope.
In generale, ci sembra evidente come questa ennesima dichiarazione fuori luogo si inserisca in una visione complessiva del rapporto fra lavoro e formazione che ha preso sostanza nei provvedimenti del Governo Renzi e in diverse dichiarazioni del Ministro Poletti. E’ la visione propria di una classe imprenditoriale, quella italiana, mediamente poco istruita (1) e che ha da tempo operato una scelta strategica: puntare sulla svalutazione competitiva del costo del lavoro (comprimendo diritti e salari), anziché sull’innovazione. Dietro lo svilimento del processo formativo, i consigli di andare a scaricare cassette di frutta per fare esperienza, ma soprattutto dietro le richieste al Governo di Confindustra e TreeLLLe, troviamo la ruvida realtà di investimenti pubblici e privati in Ricerca e Sviluppo, l’abbassamento progressivo dei salari reali, la dequalificazione (proprio dal Decreto Poletti in poi) del contratto di apprendistato, la volontà spesso malcelata di sfruttare stage e alternanza scuola-lavoro come manodopera gratuita o a basso costo.
Pensiamo, al contrario, che il rapporto fra formazione e lavoro (e quindi anche con il territorio) vada completamente ribaltato. Deve essere valorizzato il ruolo sociale della formazione e della conoscenza, la sua capacità di trasformare l’esistente, tanto nei prodotti che nei processi produttivi, di creare buona occupazione e di avviare una necessaria quanto urgente riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo. All’opposto, piegare i percorsi formativi alle esigenze di progetti a breve termine di un tessuto imprenditoriale che non investe in innovazione, significa non soltanto perdere il treno giusto dello sviluppo equo e sostenibile, ma consolidare le disuguaglianze e i ricatti che subiamo tanto nei luoghi della formazione che su quelli di lavoro.
Ricordiamo, infine, a Poletti che c’è poco da stupirsi se i giovani non riconoscono nell’articolo 18 il problema del mercato del lavoro. In primo luogo, milioni di giovani precari, parasubordinati, partite IVA e dipendenti di piccole imprese non ne hanno mai potuto godere. Inoltre, l’articolo 18 non è mai stato un problema per nessuno se non per chi voleva avere maggiore agibilità nei licenziamenti: con il Jobs Act abbiamo sperimentato cosa significa per voi “maggiore flessibilità”, uno scenario che non serve a soddisfare le esigenze eterogenee e di mobilità di chi si affaccia sul mercato del lavoro, ma che ancora una volta toglie diritti a tutti.
Ci siamo veramente stancati, basta discorsi da bar! Il problema di questo paese è la mancanza di una vera politica industriale, che passa anche e soprattutto attraverso un investimento strategico in Università e Ricerca, come da noi sottolineato nella Nuova Università, indispensabile per far ripartire questo paese e creare opportunità di sviluppo e di lavoro rifiutando la logica della competizione al ribasso su salari e diritti di chi studia e lavora.
(1) Gli studi dimostrano che a parità di condizioni un imprenditore laureato assume il triplo di laureati di quello non laureato (Schivardi e Torrini, 2011). Peccato che, se la media di laureati fra gli occupati come manager in Europa sia del 54%, in Italia scende al 25%.