Nel caso di un’effettiva mancata assunzione per motivi discriminatori, il candidato all’impiego viene tutelato dalla legge italiana? Scopriamolo insieme.
Partiamo da un assunto: che piaccia oppure no, un datore di lavoro privato può assumere chiunque desideri e ritenga opportuno. Anche nel caso – esageriamo per assurdo, anche se soprattutto nelle piccole aziende i casi non sono così rari – si trattasse esclusivamente di membri di famiglia e di amicizie strette.
Tuttavia, la legge italiana prevede una normativa specifica in materia di colloqui per la selezione del personale che dovrà comporre l’organico di un’attività imprenditoriale privata: in particolare, anche in fase di selezione preliminare vige il divieto di discriminazione in base al sesso, all’età, al credo religioso, all’orientamento politico, allo stato di gravidanza, alla disabilità, al luogo di nascita e provenienza ed all’adesione ad un sindacato.
Si tratta dell’articolo 27 del Decreto Legislativo 198 dell’11 Aprile 2006, che stabilisce quindi che il divieto di discriminazione è imposto non soltanto durante l’effettivo rapporto lavorativo, ma anche durante la fase di valutazione riguardo all’opportunità o meno che il rapporto venga instaurato formalmente ed a tutti gli effetti. Cosa rischia quindi un datore di lavoro se discrimina in fase di selezione?
Come dimostrare la discriminazione e quali sono le conseguenze
Facciamo un breve premessa: l’aspetto più complesso di queste spiacevoli, disdicevoli ed illecite circostanze è quello probatorio. È tutt’altro che semplice, infatti, provare che la discriminazione sia effettivamente avvenuta. Secondo la giurisprudenza, l’onere della prova spetta al candidato non assunto, che deve dimostrare “al di là di ogni ragionevole dubbio” che, almeno a parità di condizioni nei confronti del candidato assunto, la sua posizione sia stata scartata per motivi discriminatori.
Proviamo a fare qualche esempio: se un datore di lavoro assume un candidato che risulta iscritto al suo stesso partito politico scartando un candidato con maggiore esperienza e magari anche con un maggior numero di titoli e certificazioni per il ruolo, appellarsi ad un giudice per far valere i propri diritti, in questo caso può avere basi di effettivo fondamento dell’esistenza di comportamenti discriminatori. Tuttavia, gli “escamotages” che il datore di lavoro può addurre come prova contraria (ad esempio una migliore prova pratica sul campo effettuata dal candidato assunto e simili) non sono pochi, purtroppo.
Nonostante ciò, in caso la discriminazione venga comprovata dal giudice, ecco che al candidato discriminato spetta un risarcimento del danno definito da “perdita di possibilità” per motivi pregiudiziali e, appunto, discriminatori. La quantificazione dell’entità del risarcimento varia di caso in caso, a seconda della gravità delle discriminazioni perpetrate emersa durante le fasi di giudizio, e spetta alla risoluzione e decretazione del giudice.