Oggi, 6 febbraio 2011, si è tenuta l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università degli Studi di Torino, che quest’anno ha visto la presenza, tra gli altri, dei ministri Balduzzi e Fornero.
Non si può iniziare a raccontare la mattinata di oggi senza partire dell’inspiegabile militarizzazione che impediva a chiunque l’ingresso in piazza Bodoni, bloccando ogni accesso con almeno una ventina di mezzi blindati disposti lungo tutte le vie che circondano la piazza.
Gli studenti e i lavoratori, accorsi per contestare la cerimonia, che ritenevano stridente rispetto all’attuale condizione del diritto allo studio e dell’Università pubblica, si sono concentrati in via Andrea Doria. In piazza, insieme ai Borsisti e agli Occupanti di via Verdi 15, siamo scesi per sottolineare il profondo non-sense di questa celebrazione, che nella lussuosa sala del Conservatorio, con sfarzo, ermellini e vesti buone è apparsa, in questo periodo di crisi, assurda e fuori luogo come una festa di non-compleanno. Mentre 8000 borsisti rimangono senza borsa di studio, mentre Torino perde i suoi studenti e la possibilità di attrarne di nuovi nei prossimi anni, mentre l’Università perde in qualità dell’offerta formativa, la scelta di festeggiare doveva essere salutata da una risposta al tempo stesso goliardica e forte: noi abbiamo deciso di portare in piazza un enorme esercito di carte, all’inseguimento di un’Alice stressata e senza borsa di studio, guidata da una Regina di Cuori, che vuole tagliare i fondi per il DSU prima delle teste.
Fuori dalla piazza, bloccata come una ridicola “zona rossa”, siamo stati stretti da un enorme spiegamento di polizia, che non ha permesso nessuna manifestazione di dissenso nei confronti dell’evento in corso. Tuttavia, non ci siamo fermati di fronte a questo e abbiamo proseguito su due fronti: da un lato, all’esterno, bloccando le strade e portando la nostra protesta nel centro blindato della città; dall’altro, all’interno, i rappresentanti del Senato Studenti hanno inscenato una contestazione. Prima dell’intervento del Ministro Balduzzi, un fischio ha dato inizio alla protesta: ad uno ad uno i rappresentanti degli Studenti Indipendenti si sono alzati in piedi, ricordando ai Ministri e a tutti i presenti la condizione del diritto allo studio in Piemonte, la gravità di alcune scelte del consiglio regionale che ha dato priorità ad altre voci di spesa, prendendo anche posizione sul tema della riforma del mercato del lavoro. Dopo un breve volantinaggio gli studenti sono poi stati trascinati fuori dal servizio di sicurezza e si sono ricongiunti con il resto dei manifestanti.
Il latitante Cota, invitato a presenziare, non si è presentato e nel frattempo ha tenuto una conferenza stampa, piuttosto che cogliere la possibilità di rispondere all’invito dello stesso Rettore dell’Università e alle istanze di studenti e borsisti a risolvere la situazione.
Riteniamo inaccettabile che agli studenti che manifestano un legittimo dissenso rispetto alle scellerate politiche regionali e nazionali- pensiamo con questo tanto al diritto allo studio quanto al mercato di lavoro- sia risposto con la repressione e la consueta sordità delle istituzioni, sempre più in continuità col precedente Governo. Che la Fornero dica, poi, di voler ascoltare gli studenti e le forze sociali per intavolare un dialogo, senza farlo davvero, scappando dalla porta sul retro, ci lascia basiti e interdetti. Non ci resta che ridere l’ennesima risata amara per l’ennesima dimostrazione di non-senso della giornata.
Studenti Indipendenti
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Il discorso di Nicola Malanga (presidente del senato degli studenti) all’inaugurazione dell’anno accademico:
Magnifico Rettore, Gentili Ospiti,
L’inaugurazione dell’Anno Accademico è una cerimonia rituale con cui l’Università mostra a sé stessa e alle istituzioni del territorio la permanenza di quella tradizione pluricentenaria che raccoglie attorno ai “luoghi del sapere” le giovani generazioni, tramandando conoscenze, valori e principi. Per loro natura le ricorrenze istituzionali come questa tendono a permearsi di un sentimento di rassicurante e immobile normalità. Pare che tutto dentro l’Università si riproduca uguale a se stesso, semplicemente con le necessarie innovazioni e con quei “sacrifici” di cui ovunque si parla. In quanto unica voce istituzionale della compagine studentesca, solitamente esclusa sia dai riflettori che dai luoghi decisionali, in questa sede mi farò portatore del sentimento diffuso e condiviso di come tutto questo non sia più vero. La Legge Gelmini, che abbiamo aspramente contestato, ha modificato profondamente la nostra università e sarebbe ipocrita non ricordare le ferite che si sono aperte all’interno della comunità universitaria durante il processo di riscrittura dello Statuto. Ferite che, è giusto ricordarlo, rimangono aperte.
È insopportabile la normalizzazione che è seguita alla nomina del Professor Profumo quale Ministro dell’Istruzione, è insopportabile l’inerzia di tecnici e politici di fronte allo smantellamento del diritto allo studio. Nonostante l’oramai endemica carenza di fondi nazionali – che non deve smettere di scandalizzarci – colpisce la vicenda piemontese dell’EDiSU. La Regione Piemonte negli anni passati poteva essere citata come esempio positivo: ora non può più vantare nulla. Infatti i servizi dell’Ente, che costituiscono una parte fondamentale della nostra tradizione universitaria, e che garantiscono l’eguaglianza e l’accessibilità anche ai meno abbienti, rischiano di scomparire. Quest’anno degli aventi diritto – cioè coloro che hanno i requisiti economici e di merito per accedervi – solo il 30% ha ricevuto la prima rata della borsa di studio senza alcuna garanzia sull’erogazione della seconda. Concretamente, più di 8000 studenti rischiano, ingiustamente e vergognosamente, di non poter continuare gli studi. Io sono uno di quegli 8000. Io sono qui in veste di Presidente del Senato degli Studenti, ma non avrei mai potuto esserci senza la borsa di studio Edisu. Io sono, in gergo tecnico, un “fuori sede” proveniente dal Sud di questo Paese e sono orgoglioso di poter studiare in questo Ateneo, nel quale sto acquisendo la mia formazione civile e politica oltre che professionale e accademica.
Il silenzio e i “cori di vibrante protesta” che hanno accolto questa decisione sono motivo di imbarazzo per diverse ragioni. Prima di tutto perché il diritto allo studio, sancito dalla Costituzione, e definito dallo stesso Senato Accademico come “priorità non negoziabile” non può essere messo in competizione con altri diritti come invece più volte dichiarato da rilevanti esponenti della Giunta guidata da Roberto Cota, svuotando così il termine “diritto” di ogni significato. In secondo luogo, non so come definire, se non come sconsiderato e miope, l’atteggiamento di chi non capisce che gli Atenei piemontesi sono stati così attrattivi in questi anni non solo per il loro buon nome, ma anche per la tutela di cui godeva il Diritto allo Studio in questa regione. Il nostro Rettore e lo stesso Ministro Profumo, allora Rettore del Politecnico, hanno spesso fatto motivo di vanto la crescente presenza di studenti stranieri o provenienti da altre Regioni e Atenei. Non c’è alcun dubbio che questa presenza subirà un drastico calo se il Diritto allo Studio non sarà rifinanziato adeguatamente, con l’ulteriore effetto di portare via con sé la porzione rilevante dell’economia della nostra regione che sopravvive grazie alla popolazione studentesca.
Infine, provo un sentimento d’imbarazzo a causa della miriade di false promesse che hanno accompagnato lo svilupparsi della vicenda dell’EDiSU. Durante la campagna elettorale per l’elezione del Sindaco di questa città si è tanto parlato di “Città universitaria”, di Città che ha saputo emergere grazie alla forza delle sue reti culturali, universitarie e giovanili, della conoscenza come via d’uscita dalla crisi della Torino industriale. Mi chiedo quale futuro potrà avere una Città della conoscenza nel momento in cui i suoi Atenei si saranno trasformati in Università elitarie, a cui si accederà in base al censo, sempre più privi di fondi pubblici e sempre più finanziati dagli stessi studenti che li frequenteranno. Si tratterebbe di adeguarsi a un modello vetusto, pur vestito di nuovo. Si tratterebbe di rinunciare all’idea che l’Università non sia solo un luogo in cui si fa didattica e ricerca, ma che abbia innanzitutto il ruolo di rimuovere gli ostacoli che impediscono la reale uguaglianza dei cittadini.
Ci tengo inoltre a prevenire un’obiezione che, immagino, mi sarà facilmente opposta: se non ci sono abbastanza soldi per le borse di studio si possono utilizzare altri strumenti, come il prestito d’onore. Non voglio in questa sede addentrarmi in questioni tecniche, valutando l’effetto dell’introduzione dei prestiti d’onore in altri sistemi universitari, né l’effetto negativo che avrebbero nel sistema italiano, né tenere una lezione sulla bolla finanziaria che hanno creato negli Stati Uniti. Ci tengo però ad evidenziare, visto la presenza del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, la discrasia che si verrebbe a creare tra il sistema dei prestiti d’onore e il cosiddetto “mercato del lavoro flessibile”: ripagare il debito presuppone continuità di reddito e capacità di previsione del proprio futuro a lungo termine, mentre la precarietà è proprio quella condizione in cui qualunque possibilità di previsione viene meno; l’unica cosa prevedibile è la rata del mutuo, se non è a tasso variabile. Voglio inoltre essere molto chiaro: non ritengo, e non sono il solo, che si possa dire garantito il diritto allo studio quando uno studente per accedere all’Università sia costretto ad indebitarsi.
Ripetiamo da anni che bisogna cambiare rotta, altrimenti in futuro l’Università italiana sarà formata da Atenei per ricchi di buona qualità e con tasse universitarie molto alte e Atenei di bassa o nulla qualità con tasse più basse. Questa banale profezia rischia nei prossimi mesi di vedere l’aggiunta degli ultimi tasselli mancanti: l’abolizione del valore legale del titolo e la liberalizzazione delle tasse universitarie. La prima misura infatti pone le Università nella condizione di farsi concorrenza tra di loro e sappiamo benissimo che la concorrenza si può fare sulla qualità o si può fare sul prezzo. La seconda misura eliminando il non troppo rispettato vincolo del 20% dell’FFO, consente appunto agli Atenei di farsi concorrenza sul prezzo: chi offre una buona qualità di didattica e ricerca potrà alzare le tasse, chi non può offrirla invece ripiegherà attirando gli studenti con tasse più basse. In questo senso è apprezzabile il gesto del Governo di non introdurre l’abolizione del valore legale del titolo di studio nel Decreto-Legge sulle semplificazioni e l’annuncio di una consultazione pubblica sul tema. Auspico che questa consultazione non solo si tenga, ma che i suoi risultati siano tenuti in considerazione e che non si faccia l’ennesima norma sull’università contro l’opinione di chi tutti i giorni la vive e anima.
Di fronte ad un panorama tanto sconfortante, il rituale di questa cerimonia appare stonato. Tra qualche anno inaugurerete l’Anno Accademico di un’Università classista e semi deserta; compromessa nel suo lavoro da una qualità accademica in costante declino. Quasi nessuno degli studenti che amministrerete proverrà da quei ceti per cui l’istruzione superiore è una reale conquista sociale, foriera dell’avanzamento generale nella società dei diritti.
Coloro che ora siedono nelle aule di lezione entreranno in un mercato del lavoro disastrato e precario, sancendo la continuità di una delle maggiori ferite di questo Paese. Vi prego di perdonare la digressione fuori dal recinto dei temi universitari, ma data la presenza del Ministro del Welfare ritengo sia d’obbligo toccare questo tema. Il testo definitivo della proposta ministeriale sulla riforma del mercato del lavoro non è ancora noto, ma ho seguito attentamente le dichiarazioni del Ministro negli ultimi mesi e il dibattito che si è creato attorno ad esse. Le misure finora paventate non mi portano certo ad essere ottimista.
Vi spiego perché. Si parla tanto del “sistema dualistico” presente all’interno del mercato del lavoro italiano. Quest’analisi è senz’altro vera, e penso che sia auspicio di tutti il fatto di riuscire a superare tale situazione. Bisognerebbe però capirsi sul modo in cui intervenire, se si vuole davvero cancellare il dramma della precarietà in cui sono invischiate le giovani generazioni. Oggi infatti una miriade di contratti atipici e di contratti a termine usati impropriamente mortificano le aspirazioni dei giovani (e anche, non dimentichiamocelo, di molti, troppi “meno giovani”, ma questo tutti i presenti lo sanno benissimo, dato che nella nostra università sono impiegate nelle ricerca più di 1400 persone con contratti precari, senza contare i precari impiegati nell’amministrazione e i bibliocooperativisti).
Se già partendo da condizioni ottimali non è impresa facile riuscire a costruire la vita che si vorrebbe – e penso che su questo possiamo essere tutti d’accordo -, figuriamoci quando si ha la percezione che sia franato persino il basamento sul quale montare le impalcature della propria vita. Ben venga dunque l’intento di cambiare le cose. Il problema però si pone quando la condizione dei giovani viene utilizzata come una clava per andare a colpire i cosiddetti “garantiti” – se di garantiti possiamo parlare ancora in una fase di crisi come quella che stiamo attraversando – e quando la soluzione proposta non va ad intaccare i nodi strutturali del sistema produttivo italiano. Sembra infatti ormai chiaro che il provvedimento che verrà messo in atto sarà costruito, sfumature a parte, attorno all’idea del cosiddetto “Contratto Unico”, idea che viene da lontano, che conosciamo e che non ci convince affatto. Non è possibile affrontare il problema partendo dalla coda anziché dalla testa, dalla forma anziché dalla sostanza. E la sostanza non è altro che l’eterna questione che affligge questo Paese e che nessuno si prende la briga di risolvere: capire finalmente quale ruolo vuole giocare l’Italia all’interno dello scacchiere europeo e, soprattutto, come vuole ricollocarsi all’interno della divisione internazionale del lavoro. Come pensiamo di riconvertire la nostra economia? Come usciamo dal paradosso di essere uno dei paesi dell’Unione Europea con meno laureati ma di avere al tempo stesso un numero altissimo di laureati disoccupati e precari? Come mai non si vede all’orizzonte uno straccio di politica industriale e il settore della formazione e della ricerca, fondamentale per uscire dalla crisi competendo sull’innovazione anziché sul taglio dei diritti e dei salari, viene da anni martoriato da tagli indiscriminati e leggi mortificatrici?
Torno a rivolgermi direttamente a Lei, Ministro. Le chiedo gentilmente un favore da parte mia e – credo – da parte di tutti coloro che l’anno scorso sono scesi in piazza al grido di“noi non moriremo precari”: se la Sua intenzione è riformare il mercato del lavoro eliminando ogni reale possibilità di stabilità e senza risolvere i problemi strutturali di cui sopra, almeno non dica che lo sta facendo nel nostro nome, perché non è questo che chiedevamo e chiediamo tuttora.
La crisi di cui tanto parlate è anche qua fuori. Sta anche in quelle persone che stanno manifestando, al gelo, il proprio disagio nella piazza antistante a questo consesso. La crisi, per le persone della mia generazione e della mia condizione, è l’impossibilità di autodeterminarsi; la crisi è qualcosa di tremendamente materiale, che rende l’esistenza un’intera, grigia precarietà.