Una rete di scienziati di tutta Europa di fronte allo smantellamento della ricerca, che le politiche di austerità impongono, si stanno mobilitando per porre questo tema al centro delle politiche nazionali ed europee. In Francia i ricercatori d’oltralpe hanno indetto per il 18 Ottobre una marcia in bicicletta per manifestare il proprio dissenso contro i tagli che il governo ha imposto alla ricerca e all’istruzione pubblica, in linea con quanto avviene in molti paesi del sud dell’Europa.
Anche in Italia, molte università stanno attivando percorsi di mobilitazione che provino a sensibilizzare sulla condizione ormai disastrosa del mondo della formazione italiana.
Da anni, infatti, nell’Università assistiamo ad un ridimensionamento dell’offerta formativa, questo dovuto ai requisiti minimi di docenza imposti dal ministero. Con l’accreditamento dei corsi di studi, attraverso una formula che non tiene conto della qualità reale della didattica offerta nei nostri atenei, si è palesata l’effettiva volontà dei Governi che in questi anni si sono susseguiti, quello di ridimensionare il numero di studenti e di chiudere importanti corsi di studio e di ricerca, ritenuti troppo onerosi o peggio, troppo poco spendibili da un punto di vista lavorativo. Questa visione dell’Università è frutto di una logica sempre più dominante che vuole i luoghi della formazione sempre meno accessibili, disgregando in maniera evidente il tessuto sociale su cui si fonda l’istruzione pubblica. Una volontà, neanche tanto nascosta, basti pensare al numero di docenti necessari per l’attivazione di un corso di studi, tenendo conto dell’impossibilità degli atenei di assumere nuovo personale, visto il blocco del turn-over.
La volontà che si cela dietro il decreto AVA è quella di ridurre l’offerta formativa delle Università attraverso l’eliminazione di interi corsi di studi o di singoli insegnamenti ritenuti qualitativamente non all’altezza. Questa volontà si esplica attraverso la creazione di un indicatore (DID) che si basa però su dati falsi. L’indicatore si basa infatti sul monte ore, parametro evidentemente quantitativo, e non sulla qualità effettiva della didattica erogata. Per calcolare il monte ore, nel decreto si individua come “standard” quello di 120 ore per ogni professore ordinario; ed è proprio questo il dato falsato, in molti atenei questo massimo, corrisponde esattamente al minimo di ore di didattica frontale che ciascun professore deve tenere.
Del resto questa volontà è ampiamente tradotta nelle linee guida sulla programmazione triennale, dove si chiede agli Atenei, in cambio di esigui finanziamenti, il raggiungimento di obiettivi come l’eliminazione dei corsi di studio o l’accorpamento di intere sedi universitarie.
Tutto questo ragionamento, si fonda su un principio indiscriminato ed evidentemente ideologico, che in Italia ci sono troppi studenti o troppi docenti. Eppure da una lettura dei dati OCSE, questo non appare evidentemente reale. L’Italia si trova al quartultimo posto in Europa per numero di iscritti all’Università, (appena 3.302 iscritti ogni 100.000 abitanti), di questi solamente il 21% nella fascia d’età 25-34 riesce a conseguire il diploma di laurea e su 37 paesi analizzati ci troviamo al 34esimo posto. Ma è altrettanto falso che ci siano troppi docenti; il rapporto studenti/docenti è più alto della media OCSE rendendo palese il numero troppo basso di docenti in relazione al numero di studenti. Per ovviare al problema, i vari Governi, hanno deciso di cercare di ridurre il numero di studenti attraverso due strumenti: le tasse universitarie e il Diritto allo Studio Universitario.
Le già alte rette universitarie hanno subito un notevole incremento dal 2006 ad oggi, facendo arrivare l’Italia al terzo posto in Europa per le tasse più alte con una media di circa 1600 euro annui nel 2011, superiore a quella di Paesi come Francia e Germania. Allo stesso tempo abbiamo assistito ad un netto de-finanziamento del Diritto allo Studio. Le risorse stanziate per le borse di studio agli studenti ammontavano nel 2012 a circa 280 milioni, contro 1.8 miliardi e 2.3 miliardi rispettivamente di Francia e Germania; queste borse, in più, andavano a coprire solamente l’8% della popolazione studentesca, a fronte del 27% in Francia e del 18% in Germania. In Italia si assiste inoltre al fenomeno degli studenti “idonei non beneficiari”, che posseggono i requisiti necessari per la borsa di studio ma a cui non viene concessa per mancanza di fondi. E’ chiara quindi la volontà del Ministero di rendere l’Università un ambiente sempre più elitario, basti pensare che proprio in questi giorni è in discussione lo “Sblocca-Italia”, il cui documento economico e finanziario evidenzia la volontà del Governo di riportare sotto la scure del patto di stabilità le risorse per il Diritto allo Studio.
Tutto questo del resto è in linea con quanto sta avvenendo negli ultimi anni in Italia, rispetto al finanziamento pubblico ai nostri Atenei. Dal 2008 ad oggi i fondi stanziati per Università e Ricerca sono diminuiti sensibilmente. La legge 133/08 ha comportato un taglio al Fondo di Finanziamento Ordinario (il finanziamento primario per i nostri Atenei) per il quinquennio 2009/2013 pari a 1.441,5 milioni di euro. Se il valore nominale dei finanziamenti è cresciuto tra il 1996 e il 2013, è però da notare che, correggendo il dato per l’inflazione, il loro valore reale è, in realtà, diminuito leggermente rispetto al 1996.
Dunque, all’evidente de-finanziamento pubblico intercorso in questi anni, ha corrisposto la necessità per molti Atenei di ricercare ulteriori risorse attraverso l’aumento della contribuzione studentesche, la diminuzione dei servizi erogati, la riduzione del personale docente, attraverso i prepensionamenti senza alcuna possibilità di sostituirli con nuove assunzioni e la riduzione del Personale Tecnico Amministrativo.
Questi percorsi, che sono stati poi adottati da quasi tutti gli Atenei, sono stati dunque molto spesso imposti dal Ministero, che per ovviare alla mancanza di tali risorse, ha previsto il superamento del limite del 20% di tassazione sul totale del FFO, scorporando da tale dato, da una parte il numero degli studenti fuoricorso e adottando dall’altra un numeratore più ampio, ovvero tutti i trasferimenti statali che il Miur eroga alle Università.
La retorica che si è diffusa negli ultimi tempi che vede l’Università italiana poco efficiente solo a causa di una cattiva gestione delle risorse e non di un finanziamento scarso, è dunque falsa; basta guardare ai dati italiani comparandoli con quelli europei e dei paesi OCSE: l’Italia spende circa lo 0,7% del suo PIL in istruzione a confronto del’1,2% della media Europea. L’Italia è 30° su 33 stati appartenenti all’OCSE per la percentuale di PIL speso in Università. Come se non bastasse, secondo fonti OCSE, l’Italia è 14° su 24 paesi per quanto riguarda la spesa cumulativa media per studente (poco più di 40 mila dollari rispetto a una media OCSE vicina ai 60 mila). Anche guardando i dati della nostra Università degli Studi di Siena si nota un aumento della quota premiale di finanziamento a fronte, però, di una progressiva diminuzione dell’FFO totale di circa 6 milioni fra il 2010 e il 2012. Questa è una palese manifestazione della volontà di nascondere il de-finanziamento pubblico dietro la retorica della “meritocrazia”, la quale provoca una competizione fra Atenei per accaparrarsi le poche risorse disponibili: queste ultime hanno una grossa incidenza nel bilancio del nostro ateneo e, tuttavia, non bastano ad offrire una didattica e dei servizi che siano di qualità.
Il Finanziamento premiale, infatti, se da una parte premia le Università che producono servizi, didattica e ricerca migliori, lo fa in un sistema ampiamente depauperato, creando un già forte dislivello tra gli Atenei del Nord e quelli del Sud.
La divisione del Finanziamento complessivo agli Atenei tra quello ordinario e quello premiale aumenta ancora di più il divario tra Atenei con condizioni economiche estremamente precarie e quelli che tutto sommato sono riusciti in qualche modo a reggere difronte alla mancanza dei fondi pubblici attraverso un numero costante di studenti iscritti o attraverso politiche di alienazione del proprio patrimonio, con la messa in vendita di interi complessi didattici o la riduzione del personale docente e tecnico amministrativo. Da questo punto di vista, riteniamo che il metodo migliore per premiare una didattica ed una ricerca di qualità, sia quello di incrementare la quota ordinaria del Finanziamento pubblico, portandolo ai livelli europei, consentendo agli Atenei in difficoltà di risanare i propri bilanci, dall’altra di investire ulteriori quote per premiare i risultati ottenuti dalle Università senza intaccare il sistema d’istruzione pubblico nazionale.
Anche sul versante della ricerca il de-finanziamento dell’Università ha prodotto effetti negativi. I posti di dottorato banditi sono diminuiti circa del 19% dal 2008 al 2014 e anche i fondi per i PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) hanno subito una drastica riduzione passando da circa 126 milioni nel 2000 a qualche centinaia di migliaia di euro nel 2014. Dal momento che gli Atenei non hanno più la possibilità di bandire concorsi, si rende necessario fare affidamento sulle risorse dei singoli privati con cui ogni Dipartimento collabora, i quali però richiedono una ricerca funzionale ai propri interessi e che non può essere quindi libera e considerata ricerca di base. Si assiste così, oltre che ad un notevole calo nel reclutamento dei ricercatori universitari (-90% fra il 2006 e il 2013), ad un sensibile peggioramento della vita lavorativa per i ricercatori da un punto di vista contrattuale: sul totale degli assegnisti di ricerca solamente il 3,4% vengono reclutati come RTDb e destinati ad una posizione a tempo indeterminato nell’Università, mentre il restante 96,6% viene espulso dal mondo accademico dopo appena un anno di ricerca. Dinanzi a questi dati, il Governo ha proposto un ulteriore taglio di 400 milioni alla ricerca, per reperire un miliardo di risorse che rendano effettive le assunzioni di 148 mila precari della scuola, in modo da attuare il così detto piano della “buona scuola”, rendendo però sempre peggiore il sistema universitario italiano.
A risentire dei tagli all’Università è stato anche il personale tecnico sempre più ridotto e sottopagato. L’impossibilità da parte delle amministrazioni degli atenei italiani nell’assumere nuovo personale tecnico amministrativo o, anzi, la necessità di ridurre ulteriormente le proprie unità, porta ad una sensibile diminuzione della qualità e della quantità dei servizi messi a disposizione dall’Università. A Siena, questo ha significato soprattutto un’importante riduzione dell’orario di apertura di biblioteche e sale studio.
Con la legge Brunetta si è legato inoltre per il PTA la necessità di avere una copertura stabile per l’erogazione del salario accessorio, il quale in parte è legato anche ai risultati e alla performance dei nostri Atenei. Con i problemi riscontrati dalla costituzione di tale fondo, non si è potuto infatti negli scorsi anni distribuire un’importante fetta del salario di ogni singolo lavoratore, distribuito per monte orario straordinario, orario di lavoro serale e del fine settimana, utilizzo di sostanze chimiche come nei laboratori dell’area scientifica, va però detto che questo non si è tradotto in una diminuzione dei servizi, o almeno non per tutti, visto l’enorme senso di responsabilità assunto dal personale nel mantenere altamente qualitativo il servizio offerto dal nostro Ateneo, incidendo comunque notevolmente sulle opportunità che l’Università avrebbe potuto offrire. Esso ha dunque certamente costituito un enorme sacrificio per molte famiglie che non hanno potuto usufruire di una quota salariale a loro dovuta per legge.
Altro tema certamente complesso è quello che riguarda i Collaboratori Esperti Linguistici, ad oggi dobbiamo far notare che nonostante il pronunciamento della Corte di Giustizia Europea, esiste e persiste un vuoto normativo circa le figure collaborative dei CEL con i nostri Atenei. Essi, infatti, rappresentano veri e propri docenti che impartiscono lezioni fondamentali per il percorso formativo di molte studentesse e di molti studenti, ad oggi la loro figura è stata derubricata a quella di Personale Tecnico Amministrativo, con la conseguente decurtazione dei loro stipendi, il che ha significato una fuga di molti insegnanti di lingua dal nostro Ateneo e un ridimensionamento dell’offerta didattica della lingua straniera.
Lo stato dunque in cui riversano i nostri Atenei, hanno spesso portato a scelte molto dolorose, ad esempio a Siena ha comportato la messa in vendita di beni immobiliari come Il Pendola e l’edificio situo in Via Sallustio Bandini, che per via del mercato immobiliare bloccato sono rimasti invenduti, mentre per la riduzione del disavanzo sono stati messi in vendita il San Niccolò e Le Scotte, sul primo caso, oggi ci troviamo a pagare un affitto molto alto per i prossimi venticinque anni, tenendo conto della necessità di usufruire di tali spazi per la ricerca e la didattica.
Altro tema certamente importante è la dismissione dell’affitto di Fieravecchia, dove, sempre per motivi di bilancio, sulla base di una nota Miur e Mef si è deciso di provvedere alla risoluzione del contratto, per evitare ulteriori costi al nostro Ateneo, comportando però la perdita di uno spazio ritenuto da molti docenti, ricercatori e studenti, un luogo di studio e di ricerca fondamentale nel proprio percorso lavorativo e di studio.
Pensiamo dunque, che questi temi, ormai strutturali nel nostro sistema di formazione, debbano essere ridiscussi in ampi momenti di confronto, per questo motivo lanciamo per il 14 e il 15 Ottobre delle giornate, con momenti assembleari o di didattica alternativa, per sensibilizzare sulla condizione in cui riversano le nostre Università e la Ricerca italiana.
Riteniamo che il futuro di questo Paese debba ripartire dai luoghi della formazione, perché nessuna crescita, né alcuna prospettiva di uscita dalla crisi potrà essere possibile, se non si ripartirà da un incremento del finanziamento pubblico e strutturato che rilanci Cultura e Ricerca.