Il 6 ottobre si terrà a Roma la prima Manifestazione nazionale e unitaria per la Cultura e il Lavoro. La data è stata lanciata da Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali e numerose sono le realtà che hanno aderito, a testimonianza della necessità di portare avanti in maniera compatta le rivendicazioni del settore culturale.
Anche noi, come Link Coordinamento Universitario, aderiamo e promuoviamo la Manifestazione, con l’obiettivo di restituire una piena dignità non solo alle professioni, ma anche ai percorsi formativi relativi al mondo culturale.
Il mondo della formazione vive quotidianamente difficoltà legate alla mancanza di finanziamenti strutturali per la didattica e la ricerca; per i corsi di laurea in beni culturali, le conseguenze del definanziamento si avvertono in misura maggiore, soprattutto dove sono carenti le strutture per le attività laboratoriali o dove, per la sopravvivenza stessa dei corsi, sono necessari finanziamenti di enti esterni. A queste problematiche, si risponde innescando il meccanismo perverso già diffuso in altri settori disciplinari, quello cioè della retorica dell’eccellenza, che in una prospettiva esclusiva ed elitaria cerca di giustificare o addirittura promuovere un ristretto accesso ai corsi in beni culturali.
Il meccanismo rientra nella logica per la quale, da un lato vi è uno svilimento delle professioni dei beni culturali, dall’altro viene data centralità alle esigenze del mercato, soprattutto privato. Infatti vengono assunti nei musei e negli altri enti culturali profili di formazione manageriale. Conseguenza di ciò si manifesta nell’organizzazione dei corsi di laurea che, in alcuni casi, vedono un progressivo spostamento verso la gestione e l’attività manageriale senza fornire un’adeguata preparazione più prettamente storico-artistica, caratteristica imprescindibile di questi percorsi formativi.
Per quanto riguarda il post lauream, invece, diverse sono le criticità che possono essere individuate; a partire dalle Scuole di Specializzazione, che costituiscono spesso una ripetizione degli insegnamenti dei corsi di laurea triennale e magistrale e per le quali non è prevista una fasciazione della tassazione, elemento che incide negativamente sulla condizione economica degli specializzandi.
I dottorati sono i percorsi post-lauream attorno ai quali si creano maggior prestigio e maggiori aspettative, nonostante le borse per i dottorandi non mettano a disposizione un corrispettivo adeguato per la loro attività di studio e ricerca. Il fatto che la retribuzione non sia commisurata al lavoro che viene svolto è indice di quello svilimento che investe tutto il settore culturale. Per i dottorandi senza borsa, invece, è solo del 2014 l’eliminazione da parte del MIUR dell’incompatibilità assoluta tra dottorato e incarichi di lavoro esterni, provvedimento per l’approvazione del quale decisiva è stata l’azione dell’ADI.
I master di primo e secondo livello costituiscono un nodo centrale del discorso legato al mondo della formazione, dal momento che vengono spesso presentati come i soli percorsi post lauream a poter garantire l’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro; facendo leva su tali aspettative, sono soprattutto istituti privati a presentare pacchetti formativi a un costo che li rende inaccessibili a molti. Le conoscenze e competenze promesse, inoltre, non risultano essere così esclusive, dal momento che potrebbero essere fornite in buona parte anche dai corsi di laurea se venissero resi realmente formativi relativamente ad alcuni settori scientifico-disciplinari.
Menzione speciale meritano poi i tirocini, che incarnano molte delle contraddizioni dell’intero settore culturale. I tirocini curriculari rappresentano occasioni mancate per molti studenti e studentesse desiderosi di acquisire conoscenze e competenze sul campo, dal momento che gli enti e le istituzioni che li ospitano sono in molti casi poco interessati a rendere formativa la loro esperienza e li indirizzano verso attività di biglietteria o di mera osservazione di quanto accade. Gli scavi rappresentano poi un caso particolare: esperienza cardine nei corsi di archeologia, si trasformano però in sfruttamento per gli studenti e le studentesse funzionalmente utilizzati per sopperire all’insufficienza di personale formato. Le attività di scavo, inoltre, interferiscono con il percorso didattico quando si sovrappongono alle date delle sessioni d’esame e impediscono di usufruire di determinati appelli nel corso dell’anno accademico.
I tirocini extracurriculari, invece, sono definibili in molti casi come vero e proprio sfruttamento, dal momento che si richiede al tirocinante una prestazione lavorativa a titolo gratuito, con la sola promessa di un arricchimento del proprio curriculum in funzione di un futuro retribuito che sempre più somiglia ad un miraggio. Abbiamo poi constatato che è molto labile il confine tra tirocinio e volontariato emergenziale nei casi in cui un tirocinio diventa condizione indispensabile per la sopravvivenza stessa di un istituto o di una struttura.
Con quest’analisi non vogliamo certo dire che non esistano esperienze virtuose, ma esse sono minoritarie all’interno di un contesto accademico e lavorativo che presenta forti criticità e che pone davanti a evidenti contraddizioni di fondo. Il settore culturale, infatti, mentre da un lato costruisce un eccessivo prestigio attorno ad alcune figure, dall’altro si sostiene e sopravvive grazie all’impegno di professionalità non riconosciute né tutelate, o, peggio, grazie al lavoro di un personale poco o non formato e reclutato attraverso bandi di volontariato.
Già la legge 110/2014 (legge Madia) ha costituito un avanzamento in direzione del riconoscimento e della tutela delle professioni dei beni culturali, ma non sono stati successivamente emanati i decreti attuativi che avrebbero dovuto definire i requisiti per l’iscrizione dei professionisti nei rispettivi elenchi nazionali; così come non si preclude la possibilità di esercitare la professione a coloro che non risultassero iscritti in tali elenchi, che non hanno valenza di albo professionale. Da ciò è chiara l’assenza di una intenzionalità normativa definita, che dovrebbe garantire la tutela della multidisciplinarietà del campo senza sfociare nella settorializzazione delle professioni ed evitando che ad occuparsi dei beni culturali sia personale non competente e non formato.
La svalutazione che investe tutto l’ambito della conoscenza dei beni culturali ha un’incidenza rilevante sul versante della tutela, della valorizzazione e della fruizione stessa del patrimonio, ormai quasi totalmente asservite alle logiche del mercato privato.
A partire dalla legge 4/1993, conosciuta anche come legge Ronchey, infatti, la normativa del settore ha lasciato ampio margine di azione ai privati e ad associazioni di volontariato nella gestione del patrimonio culturale, introducendo il principio della sussidiarietà orizzontale, lasciando spazio al lavoro gratuito e innescando dinamiche liberiste in un contesto che, invece, richiederebbe grande attenzione da parte del pubblico.
Quando ci interroghiamo sulla gratuità dell’accesso al patrimonio culturale e della sua fruizione, lo facciamo a partire dalla consapevolezza che la conoscenza crea un’uguaglianza sostanziale. Così come sosteniamo che lo Stato debba adottare le giuste misure per garantire il libero accesso ai saperi e un diritto allo studio inclusivo, allo stesso modo riteniamo che debba garantire un libero accesso ai beni culturali e, contestualmente, finanziare la tutela e il mantenimento delle infrastrutture necessarie alla conservazione.
Ciò che differenzia l’intervento pubblico da quello privato è il contestuale diffondersi della consapevolezza del valore educativo e civico, prima ancora che storico o artistico, che il patrimonio culturale ha per tutta la popolazione; è per questo motivo che lo Stato, come si propone nell’art. 3 della Costituzione, deve anche in questo caso rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale che impediscono di fruire in maniera libera e consapevole dei beni culturali.
Le misure spot, oltre a non essere in grado di avvicinare coscientemente alla fruizione, non hanno la stessa valenza politica e culturale che avrebbe un finanziamento strutturato per la cultura, a partire dalla didattica e dalla ricerca, fino alla tutela, conservazione e valorizzazione dei beni culturali come beni comuni.
La Manifestazione per la Cultura e il Lavoro del 6 ottobre costituirà un primo importante passo collettivo per restituire centralità alla cultura nel dibattito politico e per riappropriarsi della dignità dell’intero settore culturale.
Crediamo, però, che una riflessione d’insieme sui beni culturali debba partire dal mondo della formazione e che il confronto sul mondo della cultura debba coinvolgerne tutte le professioni e le parti, come la manifestazione si propone di fare. È per questo che il 6 ottobre saremo in piazza insieme a tante realtà e associazioni che hanno aderito o stanno aderendo ancora in queste ultime settimane.
Infine, il nostro invito a partecipare è rivolto soprattutto a studenti e studentesse, per rivendicare il diritto a un futuro dignitoso a partire dal soddisfacimento delle stesse aspettative che si hanno nel momento in cui si sceglie il proprio percorso formativo e dalla garanzia, al di là di logiche elitarie e ostacoli economici, di poter compiere quella scelta.