Gli effetti e le ricadute sociali delle riforme di Scuola e Università degli ultimi anni, come già da tempo denunciavamo, si sono ulteriormente palesati con il XVII rapporto di AlmaLaurea presentato il 28 Maggio all’Università degli studi di Milano Bicocca.
La fuoriscita emorragica di giovani dai canali formativi, con un vertiginoso calo delle immatricolazioni (solo 3 diciannovenni su 10 che decidono di iscriversi all’Università), è un dato preoccupante che impone alla politica tutta una riflessione seria sulla valorizzazione di formazione e conoscenza e al governo quindi un netto cambio di tendenza rispetto alle gravi premesse sulla riforma dell’Università.
Le riforme dell’Università, in un Paese che già accusa un ritardo storico nei tassi di scolarizzazione avanzata (infatti i laureati in Italia costituiscono il 22% della popolazione giovanile, contro il 37% della media europea e 39% OCSE), si sono tradotte in un ostacolo all’accesso al sapere, aggravato anche dalll’introduzione e la graduale estensione del numero chiuso (arrivato ormai a colpire circa il 50% dei corsi di studio dei nostri Atenei), in un contesto di progressivo definanziamento dell’Università pubblica e degli strumenti di welfare e diritto allo studio. Nonostante la totale insufficienza di fondi, si porta avanti un perverso meccanismo gestionale del poco che rimane, attraverso dispositivi di valutazione di tipo premiale, atti a premiare le eccellenze a discapito della collaborazione ed affidati ad organismi tecnici-amministrativi, quale l’ANVUR, in un clima manageriale centralizzato non estraneo a logiche di mercato.
Diventa quindi evidente come i meccanismi di ingresso all’Università siano fortemente condizionati dalla condizione economica familiare di partenza, palesando ancora una volta l’enorme vuoto statale nella gestione del Diritto allo studio e dell’istruzione universitaria nel suo complesso: si legittima e rafforza l’abissale dislivello tra le Regioni rispetto agli strumenti di accesso e sostegno al percorso di studi, che balza agli occhi consultando qualche semplice dato. In Italia il numero degli idonei-non beneficiari di borsa di studio ammonta a 40mila studenti, distribuiti in maniera diseguale sul territorio. I finanziamenti complessivi al diritto allo studio per il 31% proviene dalle casse dello Stato, mentre il resto è coperto dalle Regioni e, soprattuto, con gli introiti della tassa regionale pagata dagli studenti e dalle loro famiglie (42%). Si determina così un sistema sottofinanziato e scaricato per buona parte sulle spalle degli studenti stessi, anziché sulla fiscalità generale; inoltre in Italia solo il 10% della popolazione studentesca (176.000 studenti) risulta idoneo ai requisiti per la borsa di studio, a fronte di percentuali molto più alte negli altri Paesi europei (18% in Germania, 19% in Spagna, 27% in Francia).
Un dato di per sè inaccettabile, che oggi è destinato a peggiorare drammaticamente a causa degli effetti del nuovo calcolo dell’ISEE, che rischiano di negare a migliaia di studenti il diritto di beneficiare della borsa di studio: i dati relativi al suo impatto in Toscana denunciano un calo del 10% degli idonei ed una diminuzione dell’importo della borsa per il 5% degli studenti.
L’impatto dell’ISEE si rivela profondamente dannoso anche per l’ammontare della contribuzione studentesca: nel nostro Paese questa viene calcolata prevalentemente in modo proporzionale all’ammontare del reddito degli studenti, che verrà ingiustificatamente gonfiato dai nuovi criteri di calcolo. Il risultato? Ogni studente pagherà tasse più alte perchè sarà considerato erroneamente più ricco, se gli atenei non si affretteranno ad adeguare le soglie di calcolo.
Questa ennesima bastonata colpisce gli studenti in un contesto in cui la natura aperta e di massa dell’università pubblica è già stata duramente negata: oggi i nostri atenei sono troppo spesso inaccessibili a causa dell’insostenibilità dei loro costi. L’Italia, secondo l’Ocse, impone le rette più alte d’Europa con un importo medio di circa mille euro; è superata solo da Inghilterra ed Olanda, che compensano tuttavia con un sistema di sostegni al DSU decisamente inesistente nel nostro Paese. Cosa dimostrano questi dati? Che l’università pubblica oggi si regge sulle spalle degli studenti e delle loro famiglie che, quando riescono a proseguire nel percorso di studi, pagano con sacrifici economici e personali il prezzo dei pesanti tagli che dal 2009 ad oggi hanno già portato ad un calo di più del 20% degli investimenti.
La formazione in Italia è ormai da anni bersaglio dei tagli del governo, senza la minima attenzione all’impoverimento culturale che il nostro Paese, ormai in fondo alle classifiche OCSE per il numero di laureati, sta vivendo. 30 000 studenti in meno, nell’arco degli ultimi tre anni, sceglie di proseguire gli studi universitari dopo il diploma, allontanando sempre di più l’Italia dall’obiettivi preposti in Europa 2020 col raggiungimento del 40% di laureati nelle fasce giovanili (ad oggi ci attestiamo al 21%).
Renzi continua a giocare con riforme che imprimono definitivamente lo stampo aziendalistico ai luoghi della formazione e, a giudicare dagli annunci su “la Buona Università”, continuano ad inseguire il fantoccio nel merito sia nell’impostazione che verrà data al sistema di DSU, sia nel sistema di accreditamento degli Atenei. Si ripropone non il potenziamento e la solidarietà, ma la chiusura degli atenei non “meritevoli”, non concependo quindi i percorsi formativi come luoghi di emancipazione sociale, culturale, individuale e collettiva che nel lungo periodo possano anche determinare la riqualificazione e il ripensamento del sistema produttivo circostante, incancrenito e paralizzato.
Vogliamo gridare forte che il modello universitario che le riforme governative degli anni passati stanno delineando, non è l’Università che ci appartiene. Grideremo forte che la nostra è l’Università pubblica, democratica e capace di interrogare la società sulle sue contraddizioni, sulle sue questioni. Vogliamo gridare che i sistemi di welfare e diritto allo studio sono insufficienti a rispondere ai bisogni degli studenti; che il numero chiuso è una finzione ingiustificata che ci spinge sempre più verso la bassa scolarizzazione; che non è sulla contribuzione studentesca, anzichè sulla fiscalità generale, che si deve basare il finanziamento delle nostre Università. Gridiamo forte che una riforma dell’università senza un rifinanziamento strutturale che permetta di uscire dal giogo dell’austerità agli atenei massacrati dai numerosi impedimenti economici, non è possibile.
L’università o torna ad essere di massa, aperta a tutti, aperta ai contesti in cui vive, con il potere di incidere sui loro meccanismi, ricca dei contributi delle parti che compongono le nostre comunità accademiche, basata sulla solidarietà e che spinge all’autodeterminazione attraverso la conoscenza e la messa in rete dei saperi, oppure non è Università. Meno che mai buona.